Riforma fiscale: il via dalle partite Iva. Inventatevi imprenditori

Posted By Antonio Alivesi on Set 20, 2018 | 0 comments


RIFORMA FISCALE: BENE CHE PARTA DALLE PARTITE IVA. INVENTATEVI UN LAVORO

Bene, bene: si parla di detassazione. Ma l’importante è capire come se ne parla e da dove si parte.

Luca Ricolfi, su Panorama, dà la sua versione dei fatti e bisogna dire che è, come spesso accade con Ricolfi, illuminante.

Si parte da qui: se un inizio di riforma fiscale vi sarà nella legge di Bilancio per il 2019, riguarderà prima di tutto partite Iva e start-up, solo dopo arriveranno le famiglie. «In questo inizio c’è molto di ragionevole», sostiene il professore. Ragionevole è «abbassare le aliquote con gradualità…e ragionevole è non dare priorità all’Irpef». Ragionevole è dare questo messaggio: «Cari signori….il lavoro non dovete solo cercarlo, o aspettare che vi piova dal cielo, il lavoro potete provare a inventarvelo voi. Aprire una partita Iva significa anche questo: capire che cosa siamo in grado di offrire e decidere di metterci alla prova».

Anche perché una recente ricerca americana ha rivelato che negli Stati Uniti vi sono circa 57 milioni di freelance, o lavoratori in proprio: più di un terzo della forza lavoro complessiva. E loro, della propria condizione lavorativa, apprezzano «soprattutto la libertà di decidere di che cosa occuparsi, e la flessibilità nella pianificazione del lavoro».

Attenzione, l’ultima battuta di Ricolfi fa la differenza: che il governo «non vanifichi tutto con altre misure che vanno nella direzione opposta: norme che obbligano i freelance ad essere assunti come lavoratori dipendenti, o l’eccesso di adempimenti: negli Stati Uniti non esiste il registro Iva e non esiste neppure l’Iva, sostituita da una sell tax compresa fra l’1 e l’11%».

Secondo il sociologo, anche il reddito di cittadinanza si merita una critica: «Potrebbe avere l’effetto di spegnere o disincentivare l’aspirazione a un lavoro». Quindi, la stoccata finale: «Non conta solo fare buone leggi, ma anche evitare di accompagnarle con leggi di segno contrario, che ne vanificano gli effetti».

TANTI GIOVANI SI SCOPRONO IMPRENDITORI, MA LO STATO NON PAGA
Viva, viva l’autoimprenditorialità: siamo tutti d’accordo con Ricolfi. Lo sono anche i giovani. Ma c’è un punto: vedersi imprenditori potrebbe essere eccitante, ma una volta che si ha un’impresa si deve pur campare. Se si lavora con la PA, qualche problemino sembra esserci. Lo raccontano i quotidiani di oggi con titoli che non fanno sconti: «Il Governo soffoca le imprese: salda i debiti sempre più tardi», «Se la pubblica amministrazione paga i fornitori oltre i 100 giorni». Il punto è questo: lo Stato è ancora un cattivo pagatore e ritarda il saldo delle fatture mandando le aziende in crisi di liquidità,
perché il tempo medio di pagamento della PA, secondo una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro (elaborazione dati della Banca d’Italia, Eurostat e Intrum Justitia), è aumentato da 95 a 104 giorni (nel biennio 2015-2016 l’attesa diminuì da 131 giorni a 95). Ora lo Stato italiano supera di 18 giorni i tempi del Portogallo, di 31 quelli della Grecia, di 71 i tempi della Germania e di 78 quelli della Gran Bretagna. I numeri possono essere anche noiosi, ma scuotono la nostra coscienza: lo stock dei debiti commerciali dello Stato, nel 2017, ammontava a 57 miliardi di euro. Lo Stato cattivo pagatore, insomma, è un costo vivo per le imprese e il costo dei ritardi è stimato in circa 4,1 miliardi di euro in termini di interessi passivi per le imprese.